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24 marzo 2015Generale

Grandi opere, con la legge obiettivo costi aumentati del 40%

Il 9° Rapporto della Camera ha fatto una valutazione sulle 97 opere approvate dal Cipe : per l'intero piano l'aumento sale al 60%
di Giorgio Santilli
 
Non ci sono solo le inchieste che hanno portato all'arresto di Ercole Incalza a mettere la «legge obiettivo» sul banco degli imputati. Ci sono numeri impietosi - documentati dal 9° Rapporto sullo stato di attuazione del programma realizzato da Cresme e Servizio studi della Camera - che dimostrano il fallimento del piano grandi opere. Oltre alle modeste realizzazioni, ferme all'8% del totale e all'esplosione di un programma faraonico arrivato a 419 interventi per un importo di 383,9 miliardi, il dato più inquietante è quello della crescita dei costi: il 40,3% in dieci anni, dal 2004 al 2014, calcolato su 97 opere che non sono rimaste sulla carta ma hanno avuto il sì del Cipe.
Il 30 aprile 2004 il costo di queste 97 opere approvate dal Cipe ammontava a 65.227 milioni mentre oggi, al 31 dicembre 2014, il costo di quelle stesse opere ammonta a 91.516 milioni. Una differenza di 26.289 milioni che corrisponde a un incremento del 40,3 per cento in dieci anni.
Il discorso cambia se la valutazione dei costi si sposta sul costo non delle singole opere ma sul programma complessivo. In quel caso pesano, ovviamente, i nuovi inserimenti di opere nel piano, cioè l'allargamento del programma. Sempre secondo il 9° Rapporto al 30 aprile 2004 nel piano erano comprese 228 infrastrutture per un valore di 233.385 milioni di euro; alla data del 31 dicembre 2014 le opere sono diventate 419 milioni per un valore totale (che sconta anche gli aumenti di cose delle sigole opere) di 383.857 milioni. L'incremento dei costi di programma, con questo metodo di calcolo, è del 64,5%. Più corretto usare il valore del 40,3% perché quel dato consente di accendere i riflettori su un tema diverso da quello di una pianificazione largamente inaffidabile che ormai tutti riconoscono. La lievitazione dei costi delle singole opere nasce, invece, da alcune norme tipiche della legge obiettivo che ora il Governo sembra intenzionato a modificare con un provvedimento organico di riforma delle leggi.
 
La prima di queste norme è quella al centro delle inchieste che hanno portato in carcere Ercole Incalza. Si tratta della distorsione principale imposta dalla legge obiettivo: l'affidamento della direzione lavori al general contractor di un'opera. In sostanza l'impresa appaltatrice (general contractor) che dovrebbe essere controllata nella realizzazione "fedele" del progetto controlla se stessa assumendo la direzione lavori sotto la propria responsabilità. Nei procedimenti ordinari la direzione lavori è affidata alla stazione appaltante o al progettista che ha firmato il progetto. In questo modo si crea un naturale contraddittorio fra imprese appaltatrice e direttore dei lavori.
Ma con la legge obiettivo questa distinzione fra progettazione ed esecuzione dei lavori si assottiglia fino a scomparire. Al general contractor possono essere affidati, secondo la legge obiettivo, anche la progettazione definitiva, quella esecutiva e anche tutti gli ter che portano alle autorizzazioni del progetto (che comunque dovrà ripassare per il Cipe per avere l'ok definitivo). Si tratta di leve che impattano direttamente sui costi dell'opera. Questo accentramento di poteri è possibile - ed è un altro aspetto molto critico della legge obiettivo - anche perché l'opera può essere affidata al general contractor solo sulla base di un progetto preliminare, lasciando alla sua responsabilità lo sviluppo dell'opera negli stadi successivi.
 
Qui la lievitazione dei costi diventa quasi inevitabile. Il general contractor assume la responsabilità dell'opera a uno stadio ancora del tutto "immaturo". L'opera deve ancora avere la valutazione di impatto ambientale (Via) e il via libera degli enti locali sul territorio (che nella legge obiettivo sono sintetizzati in una relazione della Regione): subirà certamente molte modifiche e tutte saranno al rialzo dei costi. Anche questo pesa sul dato evidenziato dal 9° rapporto. C'è un'altra norma che può aver indirettamente contribuito alla lievitazione dei costi avendo ridotto a monte la concorrenza fra general contractor. Quando si trattò di individuare i requisiti per la partecipazione alle gare di general contractor il governo Berlusconi, su proposta dell'allora ministro Pietro Lunardi, optò con il decreto legislativo 190/2002 per un "general contractor all'italiana" che era ammesso all'appalto soltanto se avesse realizzato lavori in proprio per una dimensione proporzionale a quella dell'opera da realizzare. Nel resto del mondo, il general contractor non è necessariamente un costruttore ma una società - spesso una società di ingegneria - che è in grado di coordinare i lavori senza realizzarli direttamente. In Italia si decise che i general contractor potevano essere solo grandi imprese di costruzioni mentre furono tagliate fuori grandi società di ingegneria che realizzavano opere civili e impianti in molte zone del mondo.